venerdì 27 luglio 2012

L'Editoriale. E SE L'EUROPA RIPARTISSE PROPRIO DA QUI? (La Gazzetta dello Sport)

Il primo sorriso olimpico me lo recapita un’atleta croata 
sul treno Giavellotto che porta dritto al villaggio. C’è mezza squadra di basket femminile in libera uscita alla scoperta di Londra con l’aria furbetta di chi è scappato dal collegio. Emma, cognome francamente impronunciabile, è socievole, ama l’Italia e conosce la Gazza: «Siamo qui da tre giorni e ci divertiamo una cifra. Peccato che sabato le americane ci fanno
nere... ». Di segno opposto ma di uguale tonalità cromatica è l’umore del presidente Napolitano che, sbarcato qui in un giorno di lutto e polemiche, trova comunque la misura giusta: «L’Olimpiade non è un momento d’orgoglio né una distrazione. È una prova non solo per gli atleti ma per tutto il Paese». In fondo, piaccia o no, sport e politica stanno a braccetto da sempre. Questa sera più o meno due miliardi di persone — 80 mila fortunati allo stadio, gli altri davanti a un teleschermo — assisteranno al magico momento in cui Sua Maestà la regina Elisabetta accompagnata da sir Paul McCartney (o viceversa, fate voi) dichiarerà ufficialmente aperti i Giochi olimpici di Londra. I numeri dell'audience tv sono per loro natura approssimati ma la sostanza è certa: non c'è spettacolo di massa, rito religioso o assemblea partitica che possa concentrare l'entusiasmo di tanta gente attorno a un copione col finale già scritto. Se Dio vuole, dopo infiniti   bizzarri percorsi tra due ali di folla, la fiaccola approderà presso il braciere e per la trentesima volta nell’era moderna il sacro fuoco squarcerà le tenebre, anche metaforiche, che avvolgono il nostro mondo. È il miracolo di Olympia e conviene crederci: come ogni favola bella contiene, insieme al miele e alla retorica, valori realmente universali e qualche solida verità. Ogni quattro anni lo sport ha l'occasione di misurare non solo i propri record ma anche, e soprattutto, la propria forza iconica, il potere suggestivo e aggregante della sua narrazione, l'epos che attribuisce alle sue storie e ai suoi miti il valore di un linguaggio universale. L'unico capace di far parlare, sussultare, gioire e piangere, in una parola emozionare, popoli e razze diverse all'unisono e senza bisogno di traduzione. Dunque, lo sport come metafora planetaria? Beh, persino l’olimpista più convinto è costretto a  dubitarne. Il grande e compianto Candido Cannavò, che in questo periodo immaginiamo lassù in fibrillazione, ci andava cautissimo: «L’amata creatura a cinque cerchi celebra valori che il mondo calpesta». Probabilmente l'Olimpiade è solo un grande specchio: sovente restituisce  un'immagine realistica sebbene ottimista del genere umano, accompagnata da applausi e sorrisi. Più raramente per fortuna, la distorce generando mostri assai realistici come accadde a Monaco nel '72 e in tutti i giochi imbastarditi dai boicottaggi politici. Stavolta la prima immagine allo specchio fa ben sperare. Londra vive ordinatamente, con insolita partecipazione e cortesia (non prestate fede ai bollettini di guerra) la sua terza olimpiade dopo 64 anni d’attesa. Durante quella del '48, la gente era più interessata al pane che alle gare: andava nei negozi con le tessere del razionamento schivando le macerie lasciate dalla guerra. Eppure fu un momento di epica rinascita. Questa volta la fiamma di Olympia sbarca nella capitale mondiale della finanza a briglia sciolta e degli hedge fund nel mezzo della più terribile crisi economica dai tempi della Grande Depressione. La coesione di un continente, oltre che della sua moneta, è a rischio e questa città è un sublimato di civiltà europea, anche se finge ostinatamente di ignorarlo. Tra le istantanee che ho negli occhi ce n'è una che meglio delle altre lega sport e società, e ha la forza di una grande metafora. È  quella del tramonto sul Villaggio olimpico che ha ridato vita a East London, una delle zone più neglette e degradate della metropoli. Il mischione brulicante di razze e di bandiere, croci e mezzelune, che altrove non potrebbero convivere un secondo senza litigare. Il mondo, e soprattutto l'Europa, come lo sport: si può ripartire da qui? C'è una medaglia d’oro anche per gli ottimisti e i volonterosi in questi tempi grami? Altro specchio, altro sorriso. Sarà l'Olimpiade delle donne. Tra i 10 mila atleti iscritti ai giochi l'equilibrio tra i sessi è praticamente  realizzato, nella squadra americana le femmine superano i maschi, e probabilmente anche in quella italiana guidata da Valentina Vezzali quando si tratterà di contare le medaglie. Persino Arabia Saudita, Brunei e Qatar hanno spedito una rappresentanza rosa e Caster Semenya, messa in croce vilmente come simbolo di ambiguità sessuale, sarà l'orgogliosa portabandiera del Sudafrica. Speranza, uguaglianza, riscatto. Si può guardare allo specchio olimpico senza retorica ma non si può negare il fascino della luce che riflette. Da domani tutto questo lascerà il posto, come è giusto, alla competizione, al palpito collettivo della vittoria e dell’inno, all'improvvisata competenza collettiva su sport che poi per quattro anni torneranno negletti (non da noi di Gazzetta: a Londra siamo in 21 e qui abbiamo investito tutto ciò che il momento del mercato ci concede), all'esaltazione del tricolore. Tutto giusto, tutto vero. Ma se stasera vi capiterà di commuovervi allo spettacolo invero noiosetto di oltre 200 paesi, più dell’Onu, che sfilano sotto la bandiera a cinque cerchi, non vergognatevi neppure per un attimo. La speranza di un avvenire migliore è di tutti e non c'è squalo della finanza che possa rubarcela. L'importante è partecipare, tutti insieme s’intende. Forse col suo slogan un po' ipocrita, De Coubertin voleva dire proprio questo.
ANDREA MONTI

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